Fonte: D inserto di “la Repubblica” del 23/01/2016 – Una richiesta su due al medico di base riguarda una sofferenza dell’anima, e i professionisti crescono al ritmo di 5000 l’anno. Ma ogni disagio vuole il suo referente ideale. D di la Repubblica dedica un’interessante articolo per orientare i lettori alla scelta di uno specialista serio, per questo raccoglie anche il parere del Dott. Emiliano Lambiase, coordinatore dell’ ITCI – Istituto di terapia Cognitivo – interpersonale del Prof. Cantelmi.
di Claudia Borotalco
Sarà perché ai dolori di sempre (perdite, disagi esistenziali di varia natura) si sono aggiunti quelli più attuali, in quest’epoca di crisi e post crisi. Di fatto, è salito significativamente il numero degli italiani che, a dispetto delle minori disponibilità economiche generali, si sono rivolti a uno psicologo. «Negli ultimi due anni si è registrato un aumento di richieste di aiuto psicologico stimabile tra il 5 e il 10 per cento. In buona parte si può imputare alla crisi socio-economica e ai mutamenti occupazionali, che comportano disagio, riduzione dell’autostima, instabilità nella regolazione emozionale e crisi delle capacità progettuali individuali e della famiglia. Con un impatto negativo anche sulla costruzione dell’identità dei più giovani», dice Nicola Malorni, presidente dell’Ordine Psicologi del Molise e portavoce dell’Ordine Nazionale degli Psicologi (psy.it). Stime che si riflettono nelle statistiche ufficiali più recenti. «Dal rapporto Istat sul Bes (Benessere equo e sostenibile in Italia), risulta che nel 2012 sono migliorate complessivamente le condizioni di salute fisica rispetto ai dati raccolti nel 2005. Al contrario, il benessere psicologico è peggiorato, soprattutto tra la popolazione adulta e tra i giovani maschi dai 18 ai 24 anni, per i quali il punteggio medio dell’indice Mcs (Mental Component Summary) è sceso dal 53,4 a 51,7», osserva Malorni. Il malessere ha cambiato pelle, quindi: si soffre maggiormente nell’anima che nel corpo. Il disagio si manifesta in modo più subdolo, confuso, resistente. Diffuso trasversalmente rispetto al sesso e all’età. Tanto da spingere a rivolgersi al dottore di base anche per i pensieri cupi e le angosce. «Si stima che almeno il 50 per cento delle richieste che pervengono ai medici di medicina generale esprimano un disagio di tipo relazionale/esistenziale più che un problema somatico, con una maggiore incidenza dei problemi depressivi (10.4 per cento), dell’ansia (7.9 per cento) e dell’abuso di sostanze (2.7 per cento)», dice ancora Malorni. Altra novità, figlia dei tempi: la richiesta di aiuto psicologico arriva da ambiti sempre più differenziati, riflesso dei rapidi mutamenti sociali e di una collettività melting pot. «Sono in aumento le richieste strettamente legate a criticità emergenti e contemporanee, come la gestione dei rapporti in famiglie ricostruite o con figli “nativi digitali” (utenti di app e computer fin dalla più tenera età) e con parenti colpiti da malattie croniche», aggiunge Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio (ordinepsicologilazio.it). Nessuna battuta d’arresto per la professione di psicologo, quindi. Al contrario, i neo-abilitati crescono al ritmo di cinquemila l’anno, e attualmente sono circa 95mila gli iscritti all’Ordine. Allo stesso tempo, si sta palesando con forza il rischio, per i soggetti più vulnerabili (magari perché economicamente fragili), di affidare il disagio a figure poco competenti o, nella peggiore delle ipotesi, a veri e propri truffatori, attratti da un business sempre più appetitoso. «Proprio per promuovere una corretta cultura psicologica abbiamo recentemente lanciato #VoltaPagina, una videocampagna di sensibilizzazione on line, visibile anche sul profilo Facebook dell’Ordine (www.facebook.com/ordinepsicologilazio/), che ha ottenuto un ottimo riscontro di pubblico», osserva Piccinini. Il problema è anche un altro: se riconoscere uno psicologo o psicoterapeuta abilitato è semplice (fanno fede le iscrizioni all’Ordine: basta consultare gli elenchi on line delle varie regioni), più arduo è individuare la figura più adatta a sé. Come disse Jean Piaget, psicologo, pedagogista e filosofo svizzero: «Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere psicologi». Anche la persona comune a volte pensa di avere la sufficiente competenza per scegliere il professionista giusto al momento giusto. Magari, ci permettiamo di aggiungere, la convinzione è rinforzata dalla visione di serie tv di successo e qualità come In Treatment (sedute psicanalitiche realistiche, ma fiction), adattamento italiano della versione americana (a sua volta ispirata all’israeliana BeTipul) con protagonista Sergio Castellitto e in onda dallo scorso novembre sui canali Sky. «Non sempre però si ha l’esperienza per scegliere, tra le tante figure, quella in grado di aiutarci davvero. Per questo non è raro intraprendere e portare avanti uno o più percorsi senza risultati apprezzabili», ammonisce Emiliano Lambiase, psicoterapeuta e coordinatore dell’Istituto di Terapia Cognitivo-Interpersonale (itci.it).
E quindi, come evitare di perdere tempo e fiducia? Al di là del passaparola, esiste un abc preliminare per orientare la scelta. Oltre ai titoli, bisogna verificare che il professionista sia esperto nei problemi che desideriamo risolvere e competente per affrontare il livello di sofferenza e gravità del disagio. Un’occhiata al curriculum fornisce un’idea, il passaparola la conferma (e viceversa). Fondamentale la sua trasparenza nel modo di porsi. «Dev’essere chiaro, spiegare dettagliatamente il metodo di lavoro, comunicare i tempi, anche se solo indicativi, della terapia, concordare le regole e le condizioni chiedendo la vostra collaborazione. È importante anche essere edotti sull’efficacia delle strategie che intende utilizzare. Esistono prove che l’approccio proposto funzioni? Questa è una domanda da porre senz’altro», consiglia Lambiase.
AFFINITÀ ELETTIVE
Il successo del percorso, come dimostrato dalla letteratura scientifica, dipende in buona parte dall’alchimia che nasce tra paziente e terapeuta. Perché la psicoterapia è anche (e soprattutto) una relazione, e come sosteneva Carl Gustav Jung: «L’incontro di due personalità è come il contatto tra due sostanze chimiche; se c’è una qualche reazione, entrambe ne vengono trasformate». Puntualizza Lambiase: «Se non s’instaura un buon rapporto diminuiscono sensibilmente le possibilità di ottenere benefici, anche se la strategia è perfetta. Il consiglio è di attendere qualche seduta prima di proseguire: è il tempo necessario per capire se ci si sente davvero a proprio agio, non giudicati ma compresi». Come dire: se non percepite alcuna forma di critica da parte del terapeuta, se si pone verso di voi con il giusto distacco professionale (diffidare di chi ha atteggiamenti “amichevoli”), se allo stesso tempo lo sentite accogliente ed empatico, siete probabilmente sulla strada giusta. E se, invece, tutto questo non scatta? «Meglio esprimere le perplessità e concordare un tempo limite entro il quale decidere se proseguire il lavoro insieme o no, pur considerando che i tempi di “guarigione” non sono preventivabili», continua Emiliano Lambiase. Meglio scegliere un professionista di sesso maschile o femminile? Prima di decidere, provate a immaginare se vi sentireste più in sintonia e ben disposti a parlare dei vostri problemi con una donna oppure con un uomo.
A CIASCUNO IL SUO
Meno semplice valutare a priori il percorso ideale. «In linea di massima, se si vuole provare a superare una perdita e/o risolvere sintomi emozionali e comportamentali (disturbi d’ansia o depressione, attacchi di panico, alcune fobie) con soluzioni mirate e immediate, senza lavorare più a fondo sulla personalità, funzionano bene le terapie di tipo cognitivo (che forniscono strumenti per reagire in modo differente e più efficace alle situazioni problematiche), comportamentale (che mostrano come pensieri e credenze possano contribuire a creare una visione distorta delle situazioni, scatenando stati d’ansia, depressione, rabbia) oppure cognitivo-comportamentale (elementi di entrambi gli orientamenti). Queste terapie hanno la fama di essere “brevi”, ma i tempi dipendono da molte variabili (la gravità del problema, la motivazione del paziente, lo stabilirsi di una buona relazione terapeutica): in linea di massima il trattamento varia dalle 20 alle 40 sedute (dai 3 ai 12 mesi circa; info: sitcc.it). «Le dipendenze richiedono generalmente percorsi più lunghi, almeno un paio d’anni, e spesso terapie diverse: individuale, di gruppo, di coppia, di famiglia e farmacologica», specifica ancora Lambiase. Un rapporto difficile in famiglia, per esempio tra i genitori e un figlio, richiede una buona valutazione iniziale per capire, oltre all’entità del problema, se è necessaria una terapia individuale per il ragazzo oppure di coppia o familiare, considerato che a volte il nodo non risiede nel figlio ma negli adulti.
PRIMA VIRTÙ, LA PAZIENZA
Chi desidera approfondire aspetti inconsci, che vanno oltre i sintomi del disagio esistenziale (qualunque sia la sua natura), può affidarsi alla psicoanalisi. Oggi contempla anche percorsi più limitati nel tempo, analoghi a quelli della psicoterapia psicodinamica breve (info: sfpid.it; istdp.it), con incontri meno frequenti e in un arco temporale ridotto (anche “soli” 2-3 anni) rispetto al trattamento psicoanalitico classico, che può durare un decennio o più.
Si spera non tanti anni quanto quelli dichiarati da Woody Allen in un dialogo con Diane Keaton in Io e Annie: «Oh, sei in analisi». «Sì da 15 anni». «15 anni?». «Sì, adesso gli do un altro anno di tempo e poi vado a Lourdes». D’altro canto, proprio il tempo, o meglio il non-tempo, è uno dei nodi cruciali in psicoanalisi. Lo ricordava Jacques Lacan, uno dei maggiori psicoanalisti di sempre: non è lecito determinare la durata di una terapia, perché non si può prevedere quale sarà il tempo necessario al paziente. Ed ebbe modo di osservare Sigmund Freud: «In psicoanalisi le cose sono un po’ più complicate di quel che vorremmo. Se fossero semplici, non ci sarebbe forse bisogno della psicoanalisi per portarle alla luce».
IN GRUPPO È MEGLIO?
Condividere, interagire, appartenere. Riflettersi negli altri e di conseguenza riconoscersi. Insomma: fare gruppo. Sicuramente un bene prezioso in una cultura e in un’epoca che hanno fatto del distacco una bandiera e dell’individualismo un vessillo. Sarà anche per una probabile esigenza di compensazione che si stanno diffondendo i gruppi, anche di self-help, dedicati ai problemi “tradizionali” (alcol, droga, depressione) ed emergenti (disordini alimentari e dipendenza sessuale). «Condivisione e sostegno tra persone che soffrono per le stesse ragioni sono il punto di forza delle terapie di gruppo, guidate da un professionista: a trarne maggiore beneficio sono i pazienti affetti da difficoltà relazionali e dipendenze. Possono essere utili per gran parte dei disturbi, compresi quelli ossessivi-compulsivi, a patto che si sia raggiunta una sufficiente consapevolezza della propria condizione», sottolinea Emiliano Lambiase. Anche tutte le perdite (affettive, professionali o altro), soprattutto se improvvise, trovano sollievo in queste psicoterapie. «Il gruppo rompe l’isolamento, garantisce solidarietà ed empatia, restituisce alla persona nuovi legami. Ed è ampiamente dimostrato che quanto più si può fare affidamento su una buona rete di rapporti sociali, tanto più si riesce a fare fronte agli eventi stressanti».