Fonte: L’Espresso del 6 giugno 2013 – Francesco e Valeria ricordano ancora con divertito stupore il giorno in cui Andrea, il loro primo figlio, che adesso ha tre anni, ha preso in mano un foglio di carta. Aveva meno di otto mesi, e con il minuscolo dito cercava di far scorrere il foglio da sinistra verso destra come in un touchscreen. Delusissimo perché non succedeva niente, ha tentato di allargare la figura muovendo il pollice e l’indice, cioè trattando il foglio come uno schermo. Altra delusione. Forse si stava chiedendo a che cosa serve un foglio di carta. Il fratellino Tiziano, sedici mesi, cammina appena, ma quanto a tecnologia non ha esitazioni, si dirige verso un tavolino basso, prende l’ipad, lo sblocca e trova la sua applicazione preferita. Andrea e Tiziano sono più che nativi digitali, termine coniato nel 2001 da Marc Prensky per indicare i bambini nati e cresciuti con Internet. L’arrivo dell’iPad nel 2010 segna un’altra fase del cambiamento: la generazione touchscreen. I tablet sono grandi e luminosi, è facile usarli per colorare e disegnare: bastano le dita. I bambini li adorano, e i genitori più critici si chiedono se questa osmosi con la tecnologia renderà migliori i loro figli o brucerà senza scampo le loro tenere sinapsi.
Andrea e Tiziano sono figli di Francesco Sacco, 46 anni, esperto di innovazione, docente dell’Università Bocconi di Milano e dell’Università dell’Insubria di Varese, co-fondatore di Impara Digitale, cooptato da Lista Civica per i temi connessi alla tecnologia, nonché proprietario di innumerevoli gadget utili al gioco e al lavoro (penne che registrano mentre scrivi, programmi di traduzione dalla dettatura al computer).
Osservando i suoi bambini, arriva alle stesse conclusioni di scienziati come Sandra Calvert (Università di Georgetown) e Georgene Troseth, psicologa dello sviluppo (Vanderbilt University di Nashville, nel Tennessee): «I nativi digitali stanno sviluppando capacità e metodi di apprendimento completamente diversi. La mia generazione aveva grossi libretti di istruzioni, quella dopo molto più snelli, quella di adesso, zero. La conoscenza avviene in modo pratico e intuitivo. La tv è statica, e non permette una delle cose più importanti per i piccoli: lo scambio di informazioni. Tiziano è in grado di trovare sul mio cellulare le icone dei suoi giochi preferiti e cerca nella cronologia i filmatini dell’Uomo Ragno che gli piacciono. Colora sull’iPad e compone i puzzle. Nessuno gli ha spiegato niente. Certo, continua a provare e riprovare, tanto che ho dovuto mettere un filtro per bloccare eventuali danni da sperimentazione sul mio iPad, ma penso che questi bambini faranno la differenza, nel futuro saranno “makers”, produrranno da soli gli oggetti che desiderano». Il caso Sacco è particolare. In casa sua regna la domotica. Non ci sono più telecomandi: televisione 3D e luci, tutto è centralizzato e regolato attraverso l’iPad. Andrea alza e abbassa le tapparelle, mentre la tata filippina non ci riesce, e Tiziano prova già ad accendere la tv.
Una rivoluzione. Paolo Ferri, che insegna Tecnologie didattiche e Teoria e tecniche dei Nuovi Media all’Università di Milano-Bicocca, ha introdotto il termine “nativi digitali” in Italia, ed è radicale. Noi siamo gli ultimi gutenberghiani, sostiene, in fondo non c’è stato niente di totalmente nuovo dopo l’invenzione della stampa. Ci sono voluti cinquecento anni. Il suo saggio, “Nativi digitali” (Bruno Mondadori), è del 2011 e sta per uscirne un aggiornamento in e-book. C’è chi agita lo spauracchio della tecno-dipendenza, ma il cambiamento va avanti. «Siamo davanti a un’intelligenza nata dal mutamento del contesto sociale, passato da un sistema alfabetico-gutenberghiano a uno digitale televisivo», spiega Ferri.
Secondo le prime, già contestate classificazioni, nella macro categoria dei “nativi”, o “generazione Z”, ci sono tre grandi aree: “nativi digitali puri” (tra 0 e 12 anni ) “millennials” (tra 14 e 18 anni) e “nativi digitali spuri” (18-25 anni). Tutti gli altri, compreso il supertecnologico professor Sacco, sono “immigranti digitali”, bravissimi, ma con un handicap: sono passati dalla penna alla tastiera, arrivando ai tablet con un approccio utilitaristico: la tecnologia mi serve. I Digital Kids invece si divertono, hanno un’esperienza precoce degli schermi interattivi – videogiochi, cellulari, computer – e di Internet.
Nelle loro camerette, i media digitali sono sempre più presenti. L’89 per cento delle famiglie usa il computer (contro il 40 del 2005), ma i numeri rendono l’idea fino a un certo punto. Ferri, che ha condotto una ricerca su cinquanta bambini di tre classi fra i 7 e i 9 anni – c’erano da testare le app di Geronimo Stilton, il famoso e amatissimo topo investigatore – si è portato dietro il figlio Davide (10 anni) come beta tester e peer tutor. «È stato istruttivo», racconta, «vedere come funzionava bene il rapporto tra pari. Lui spiegava il gioco, ed era più utile di qualsiasi adulto. Confesso che mi fa da consulente». Che cosa è venuto fuori dalla ricerca? «I bambini considerano il mondo digitale come espansione di quello reale, non c’è quasi differenza né contrasto, trovano normale interagire, inventare varianti del gioco (noi parliamo di artigianato cognitivo). Il touch si può usare in diverse posizioni, anche stando sdraiati per terra, ed è più semplice del notebook. Le piccole dita corrono veloci sulla tastiera virtuale. Mio figlio ha scelto un gioco di Spiderman su App store a 6,60 euro, e mi ha fatto capire che la console portatile rischia di essere superata: costa ed è meno comoda».
Insomma, i nativi condizionano il mercato. Sono multitasking, in grado di distribuire l’attenzione su quattro-cinque dispositivi contemporaneamente: studiano, ascoltano la musica, rispondono agli sms e guardano Facebook sul pc, senza difficoltà. Tonino Cantelmi, psichiatra, docente di Psicologia dello sviluppo alla Lumsa, la definisce “tecnoliquidità”: si creano grandi gruppi di amici impegnati su testi diversi, che possono scambiarsi battute, mostrare foto o mail, condividere messaggi. E divertirsi. Lo studio deve essere interattivo. I genitori non li capiscono, proprio perché la loro mente è diversa. E qui arriviamo alle due questioni cruciali. Prima: la tecnologia deve essere illimitata o razionata saggiamente? Fa bene? Fa male? Michael Rich, direttore del Centro sulla salute infantile dell’Ospedale pediatrico di Boston, ci mette in guardia: «Molte app per bambini sono progettate in modo da stimolare il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore associato al piacere, per spingerli a non interrompere il gioco». Hanna Rosin su “The Atlantic” dedica un lungo reportage all’apprensione dei genitori che tentano di controllare l’uso dei tablet. C’è chi concede mezz’ora al giorno, chi un’ora durante il fine settimana, chi il mercoledì e il sabato, chi soltanto in aereo e durante i lunghi viaggi in auto. Marc Prensky è dell’idea di lasciar liberi i bambini: «Le proibizioni riflettono i nostri pregiudizi».
Seconda questione: che cosa succederà a scuola? «Per far transitare il sistema italiano verso il digitale servirebbero 6-9 miliardi di euro. Sembrano tanti, ma una portaerei ne costa uno e mezzo. Quanto a risorse disponibili, ce la battiamo con la Grecia, la Romania e il Portogallo. Solo il 7 per cento delle classi ha Internet. Per attrezzarne una ci vogliono quindicimila euro, per una scuola intera duecentomila», calcola Ferri. Eppure non si può restare indietro. Dice Sacco: «Che cosa fai? Prendi questi bambini e li metti davanti a una penna e a un foglio di carta? Sarebbe come se a noi avessero dato un calamaio». C’è chi si batte per rincorrere il nuovo, formare gli insegnanti, c’è chi vede scomparire un mondo. E la scrittura? L’ortografia? Ferri è quasi eretico: «Potremmo considerare la scrittura manuale come il disegno.». Una cosa è certa: la differenza tra i nativi e gli “altri” sarà sempre più netta. Alla domanda ricorrente su come riconoscere gli immigranti digitali, Cantelmi risponde: «Sono quelli che fanno la coda al check-in».