Fonte: Corriere della Sera del 20/01/2020 – L’Italia è tra i Paesi inclusi dal social in un test per decidere se nascondere i like su Instagram, ovvero se liberarci dalla schiavitù di controllare a quanti piacciamo. Come dice lo psichiatra Tonino Cantelmi, «Instagram è il più narcisistico fra i social e, se non saprà più stimolare il narcisismo digitale, sarà soppiantato da altri social».
di Candida Morvillo
Per molti di noi che sono su Instagram, siamo ormai a sei mesi di astinenza da conta dei like. Possiamo vedere quanti ne abbiamo noi, ma non quanti ne hanno gli altri. Ci è stato tolto il brivido della competizione. Da luglio, infatti, l’Italia è tra i Paesi inclusi dal social in un test per decidere se nascondere i like, ovvero se liberarci dalla schiavitù di controllare a quanti piacciamo o di pesare gli altri per i cuoricini collezionati. Il test coinvolge il 90 per cento dei 23 milioni di italiani presenti su Instagram ed è in corso su smartphone e tablet, non su desktop. Non risultano rivolte né qui né altrove, però ieri, il New York Times scriveva che il capo di Instagram Adam Mosseri ha incontrato lo staff «per discutere i dettagli segreti di un progetto critico: il Project Daisy». Il dilemma è pari a quello celebre della margherita, è il «m’ama o non m’ama?» e urge una decisione. La sperimentazione, partita a maggio in Canada, è stata poi estesa a Italia, Australia, Brasile, Irlanda, Nuova Zelanda e quindi ad altri Paesi. L’obiettivo dichiarato è «aiutare le persone a concentrarsi su foto e video e non sui like, affinché si sentano libere di esprimersi». Tradotto: non vadano in ansia da prestazione.
Stress da scarsa popolarità
Il Nyt la mette sul melodrammatico e descrive un Mosseri provato da una puntata della serie distopica Black Mirror, quella in cui i personaggi valutano gli altri su una scala da 1 a 5: «Non finisce bene e Mosseri non può smettere di pensarci», si scrive, come se l’ambascia fosse tutta per gli adolescenti frustrati perché la foto con l’hoverboard ha ottenuto solo il cuoricino della mamma. È probabile, però, che a fronte di utenti che crescono e post che diminuiscono, la paura sia che chi ha pochi like pubblichi meno e abbandoni per stress da scarsa popolarità. In parte, le stories hanno contenuto la fuga: spariscono in fretta e non c’è contatore. Resta allo studio se e come limitare i like pubblici, se tenere una soglia in migliaia. Curiosità: Justin Rosenstein, l’ingegnere che portò i like su Facebook, nel 2017, è uscito dai social e s’è pentito dell’invenzione: «Il “mi piace” m’ispirava ottimismo, ma si è rivelato uno pseudopiacere», confessò.
Narcisimo digitale
Non mancano i motivi per tenersi i like. Come dice lo psichiatra Tonino Cantelmi, docente di Cyberpsicologia all’Università Europea di Roma, «Instagram è il più narcisistico fra i social e, se non saprà più stimolare il narcisismo digitale, sarà soppiantato da altri social». Cantelmi, in uscita per Franco Angeli con «Amore Tecnoliquido», spiega: «Il nostro cervello è plastico e si è già adattato. Viviamo la mutazione antropologica più grande dall’avvento della scrittura e non si torna indietro. Bisogna imparare ad accettare anche le umiliazioni digitali».
L’«engagement»
La novità non spaventa chi sui like ha creato imperi. Dice Elena Dominique Midolo, Ceo di ClioMakeUp, sette milioni di follower: «Per i big player non cambia nulla: gli inserzionisti guardano più l’engagement. Il like nascosto, semmai, tocca gli emergenti: come per strada la gente è attratta dal capannello, così sui social mette il like dove ce ne sono già tanti». I like sono desueti anche per Marco Montemagno, imprenditore e divulgatore tech con tre milioni di follower: «Sono stati introdotti quando non c’erano miliardi di persone sui social. Ormai, sono incentivi a contenuti estremi». Il suo motto è: «Se i contenuti funzionano, lo misuri da come reagisce la community. Io non conto i like, ma Lavorability, il libro che ho autoprodotto per dimostrare che grazie ai social si può essere indipendenti, è il più venduto online». Il «m’ama non m’ama» incalza e per Mosseri è più che un tema di coscienza… Prima, era il supervisore del feed di notizie di Facebook e, se è stato Mark Zuckerberg a rispondere al Congresso Usa delle accuse di disinformazione, internamente, fu messo sotto torchio lui. Poi, è passato a Instagram, acquisita da Facebook nel 2012. E ora non può permettersi di sbagliare.
Fonte: Corriere della Sera