Fonte: Agenzia Sir del 02/03/2016 – I numeri dicono che ogni due o tre giorni una donna viene uccisa in Italia da un ex marito o da un amante respinto: già 10 nel primi giorni del 2016, 128 nel 2015, donne uccise da uomini feriti nel loro narcisismo, troppo fragili per gestire la frustrazione relazionale, dominati dall’incoercibile bisogno di affermare se stessi attraverso la violenza. Le vittime in genere hanno chiesto aiuto, molti sapevano, tanti gli indizi di una tragedia incipiente: ma nessuno è intervenuto. Nel 2015 118 nuovi orfani. Tutto ciò richiede un impegno pubblico per la costruzione di competenze relazionali ed emotive sin dall’infanzia. Articolo di Tonino Cantelmi.
“Vittime secondarie” del femminicidio: in Italia, dal 2000 a oggi, sono 1.628. Sono i figli rimasti orfani dopo che la madre è stata uccisa, spesso per mano dello stesso padre. Gli eventi di cronaca degli ultimi tempi ci segnalano ancora una serie di delitti che continua ad impressionare gli italiani. I numeri dicono che ogni due o tre giorni una donna viene uccisa in Italia da un ex marito o da un amante respinto: già 10 nel primi giorni del 2016, 128 nel 2015, donne uccise da uomini feriti nel loro narcisismo, troppo fragili per gestire la frustrazione relazionale, dominati dall’incoercibile bisogno di affermare se stessi attraverso la violenza. Le vittime in genere hanno chiesto aiuto, molti sapevano, tanti gli indizi di una tragedia incipiente: ma nessuno è intervenuto. Nel 2015 118 nuovi orfani.
Primo mito da sfatare. Giornalisti, per favore, basta con il raptus!
Tutto è stato largamente annunciato, tutto era purtroppo prevedibile: no, non si tratta di raptus, ma di catene di dolore che nessuno può o sa interrompere. Certo, questa incredibile cecità ci interroga. In fondo siamo sempre connessi, sempre in relazione, sempre incessantemente lì a twittare, postare, chattare, eppure siamo sempre più soli. E ancora di più: l’elefantiasi dei nostri “io” ci spinge verso un individualismo esasperato, che sembra soppiantare ogni forma di solidarietà. Ma al netto di tutto ciò, perché il grido di aiuto delle vittime non viene raccolto? Forse perché ancora prevale una mentalità derivata da un misto di accondiscendenza, paternalismo e buonismo: “Sì, è un po’ violento, ma su, con un po’ di buona volontà si rimette tutto a posto”. E invece no.
Se in una relazione c’è violenza, mi spiace, ma la tolleranza non può che essere zero.
E questo vale anche per le donne che subiscono: subire non ha senso. Denunciate piuttosto. La fede può aiutare a perdonare, ma il perdono non esige la riconciliazione con l’offensore se il prezzo è subire la violenza.
Quali misure a favore delle donne? I politici ci promettono più attenzione per questo fenomeno e qualche ministro propone nuove strutture e nuovi interventi: nel migliore dei casi ignoranti o ingenui, nel peggiore ipocriti. O forse entrambi. In Italia c’è già una legislazione efficace: sarebbe utile potenziare quelle strutture che già ci sono e che sono colpevolmente trascurate. Gli stessi politici e ministri dovrebbero chiedersi perché i servizi per la salute mentale in Italia sono ridotti allo stremo delle forze: sotto organico, senza finanziamenti, umiliati nella logistica (i locali più squallidi di una ASL vengono adibiti a servizi per la salute mentale). Ci sono già associazioni, telefoni, sportelli, centri antiviolenza: perché non potenziarli? Perché non finanziare e non mettere in grado i Dipartimenti per la Salute Mentale – sì, le strutture pubbliche – di funzionare, restituendo loro il compito di riorganizzare una rete territoriale efficace per contrastare il disagio psichico e sociale che sottende la violenza relazionale? Tuttavia questo non può essere ancora sufficiente senza una prevenzione ed una educazione alla relazione, che non può non iniziare già nell’infanzia. Pensiamo al fenomeno della erotizzazione precoce dei bambini, bombardati troppo e troppo presto da immagini, stimoli e contenuti erotici espliciti. Che idea del corpo (e in particolare del corpo femminile) si costruiscono i nostri figli?
L’erotizzazione precoce dei nostri figli è una violenza sottovalutata.
Nel femminicidio assistiamo increduli al cortocircuito del conflitto relazionale: uomini fragili, ma aggressivi, feriti in modo insopportabile nel loro narcisismo e che non possono tollerare la frustrazione relazionale, aggrediscono sino alla morte le vittime, che a loro volta non riescono a svincolarsi dalla morsa di una relazione ormai degenerata. In questo c’è una complessiva incompetenza relazionale, che ci spinge a chiederci che tipo di società stiamo costruendo. Un cammino che parte dall’infanzia. Forse dovremmo spostare l’asse già nell’infanzia verso una educazione alla solidarietà ed al rispetto dell’altro, parole queste desuete e soppiantate da altre, come competitività, successo e altre simili. Tutto ciò non può prescindere perciò da una rivisitazione dei percorsi educativi nel loro complesso. No, non si tratta di quei programmi rieducativi spacciati per contrasto al bullismo omofobico e che spesso non sono altro che forme ideologiche di indottrinamento. E neanche di educazione sessuale, sottratta alle famiglie, spesso distratte e desertificate. No, si tratta di ripensare alle competenze relazionali ed emotive che l’infanzia di oggi sembra smarrire, nella trascuratezza di adulti deludenti e silenziosi e nelle immersioni nella tecnomediazione della relazione e nei troppo attraenti e pervasivi videogiochi. Si tratta di una rivisitazione dei modelli e degli stili di vita che proponiamo. Perciò, io credo che ogni femminicidio sia una sconfitta che interpelli tutti e che segnala la progressiva perdita di umanità, che sembra connotare questa epoca postmoderna e tecnoliquida.