Fonte: https://salvatoremartinez.com del 06/04/2022
Nel regno animale un femore rotto e poi guarito è la prova dell’essere compassionevoli. Con un femore rotto l’animale non può mettersi al riparo, non può cibarsi, né dissetarsi, è in pericolo e non sopravviverà a lungo. Un femore rotto e poi guarito è la prova che qualcuno ha preso l’impegno e il tempo di stare con colui che è ferito, di portarlo in un luogo sicuro e di aiutarlo.
Fra i vari fossili di essere umano rinvenuti in varie aree del mondo ce ne sono due particolarmente interessanti, che testimoniano la presenza, già milioni di anni fa, di comportamenti simili alla compassione. Il primo esempio è una femmina di homo erectus, uno degli scheletri più completi trovato in Kenya e risalente a circa 1,6 milioni di anni fa. I dati desunti dall’analisi delle sue ossa lunghe sono coerenti con un caso grave e fatale di ipervitaminosi A: la donna avrà sofferto di un dolore estremo e immobilizzante, spesso causa di perdita di conoscenza. L’ipotetica lunga durata della malattia e il fatto che sia stata la causa di morte della donna, hanno convinto gli studiosi che, anche in quel periodo, coloro che le stavano accanto dovevano averla nutrita e protetta dai predatori (Tilley, 2015; Walker & Shipman, 1997). Il secondo esempio proviene da un’epoca ancora precedente: 1,8 milioni di anni fa e si colloca in Georgia. Qui un individuo aveva perso tutti i denti tranne uno ed è sopravvissuto probabilmente per mesi in questa condizione, dato che l’osso circostante si era riassorbito. Gli studiosi ritengono che anche lui deve essere stato curato da altri (Lordkipanidze e altri, 2005; Tilley, 2015).
Questi studi ci aiutano a capire la centralità della compassione nella nostra vita, essendo così radicata nella nostra natura e fondamentale per la nostra sopravvivenza.
In tempi più recenti Gilbert (2009) ha rilevato che la compassione è una capacità umana evoluta che emerge dal sistema motivazionale dell’accudimento, che appartiene a un insieme di sistemi comportamentali che condividiamo con i mammiferi e alcuni altri animali. Tuttavia, il vantaggio evolutivo unico che noi umani abbiamo nella nostra capacità di risposta relazionale, consiste nella nostra qualità di autocoscienza, cioè la capacità di basare il nostro comportamento sul pensiero e sull’immaginazione astratti. Questo permette il passaggio evolutivo dalla compassione come emozione, all’emozione come motivazione e, infine, alla compassione come valore e virtù.
Compassione, valore e virtù, come anche perdono, meditazione e accettazione sono termini che attengono alla tradizione cristiana e ad altre tradizioni spirituali, ma che da oltre trent’anni sono entrate nel campo della psicologia e della psicoterapia divenendo sempre più efficaci, presenti ed essenziali.
Nella tradizione cristiana, nonostante gli esseri umani siano peccatori, Dio è incondizionatamente misericordioso e compassionevole, come Gesù ha dimostrato in atti e parole verso l’umana sofferenza, guarendo i mali dell’anima e del corpo. Due parabole, in particolare, dimostrano come il cuore stesso del Cristianesimo implichi la compassione: il racconto del “buon Samaritano” (Lc 10,25-37) e la vicenda del “figliol prodigo”, o per meglio dire, del “padre misericordioso” (Lc 15,11-32). Nella prima un samaritano – considerato, nel contesto biblico, addirittura estraneo al “popolo eletto” – aiuta una persona ferita, riversa sul ciglio di una strada, dopo che altri viandanti l’hanno oltrepassata senza dare assistenza; nell’altra parabola, un padre colmo di compassione riaccoglie senza esitazione il figliolo, che aveva lasciato la sua casa sperperando sconsideratamente l’eredità pretesa anzitempo. Il comandamento centrale del Cristianesimo insegna sì ad amare Dio, anche il nostro prossimo come noi stessi, riconoscendo così l’importanza di saper dare, di saper ricevere e di sapersi dare compassione. Allo stato attuale quello dell’auto-compassione, ovvero l’atteggiamento e la capacità di amarsi nelle difficoltà, rappresenta un settore di ricerca ampiamente studiato in psicologia e praticato in psicoterapia.
Questa svolta è avvenuta grazie alla cosiddetta “terza onda della terapia cognitiva”, che ha iniziato a dialogare con le tradizioni spirituali al fine di comprenderne finalità e metodi da tradurre in pratiche e protocolli laici, da convalidare scientificamente e da integrare nel patrimonio psicologico già esistente. Il dialogo tra la psicologia scientifica e le dimensioni spirituali è sicuramente proficuo per riflettere, approfondire, trarre ispirazione, aprire orizzonti di riflessione riguardo l’oggetto comune di studio: l’essere umano, la sua natura, il suo sviluppo, il suo significato, le sue potenzialità.
Questa modalità multi-strutturata di relazionarsi con il dolore e con la sofferenza ha suscitato negli ultimi tempi un particolare interesse, dal momento che la pandemia sta minacciando pericolosamente l’umanità. Tale minaccia ha attivato nel nostro cervello la parte primordiale, viscerale ed emotiva del sistema limbico disattivando i lobi frontali della riflessione e del ragionamento: un cervello che mette in condizione di lottare o di fuggire ma che non razionalizza. Sconvolti dalla paura e dall’incertezza, nel periodo pandemico la ricerca della compassione, come metodo di psicoterapia che mette in atto il cervello lento, riflessivo e corticale, sembra rappresentare una risposta neurobiologica alla grande attivazione limbica che abbiamo vissuto.
Dunque, è la compassione che ci consentirà di aprire la porta verso il futuro. Nel tempo sospeso dalla pandemia, in cui prevalgono incertezze, stress, tensioni, paure e tristezze, la compassione diventa la chiave per far fronte alle perdite e al dolore e per gestire più efficacemente qualsiasi tipo di sofferenza emotiva o fisica.